Deroga a nuove trivelle, scaduti i termini per presentare ricorso. La Regione Molise ha perso un’occasione per tutelare il suo mare
Calabria, Basilicata, Puglia, Abruzzo, Marche e Veneto – a cui bisogna aggiungere i Comuni di Vasto e Pineto, in Abruzzo – hanno deliberato di impugnare il decreto del Mise del 7 dicembre 2016, con cui si deroga al divieto di nuovi pozzi e nuove piattaforme entro le 12 miglia.
La costa molisana non è immune dalla minaccia di nuove trivellazioni. Le concessioni di coltivazione attive in mare sono 6, di cui una proprio tra Vasto e Termoli (Rospo di Mare di Edison), che con le sue 4 piattaforme e 29 pozzi ha estratto nel 2016 oltre 178mila tonnellate di greggio, il 25% del totale estratto nello stesso anno. Questa concessione scadrà nel 2018, ha una estensione di 369,6 kmq, non produce gas, ha 1 pozzo non produttivo al suo interno e ricade entro le 12 miglia nautiche dalla costa. Il decreto, per i titoli di concessione già concessi, come nel caso di Rospo di Mare di Edison, permetterebbe alle compagnie petrolifere di continuare ad estrarre anche oltre la scadenza, in pratica fino a fine ciclo vita del giacimento, aprire nuovi pozzi e nuove piattaforme anche entro le 12 miglia. “La Regione Molise – dichiara Manuela Cardarelli, Presidente di Legambiente Molise- ha mancato la scadenza del 1° agosto per opporsi al decreto che definisce il disciplinare per il rilascio e l’esercizio dei titoli minerari su prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi. Non capiamo – continua Cardarelli- l’immobilismo di questa scelta, considerato che le Regioni Calabria, Basilicata, Puglia, Abruzzo, Marche e Veneto si sono opposte a tale decreto. Chiediamo ora alla Regione un impegno serio e più concreto a tutela del nostro mare.”
Il decreto ministeriale del dicembre 2016, pubblicato lo scorso aprile in Gazzetta Ufficiale, è solo l’ultimo degli aiutini concessi al mondo delle fonti fossili. Basti pensare che, tra i Paesi del G20, l’Italia è all’ottavo posto per i finanziamenti alle fonti fossili: nel 2016 sono stati oltre 14 i miliardi di euro destinati a sussidiare, direttamente o indirettamente, le fonti fossili nel nostro Paese. Tra questi figurano sussidi al consumo e alla produzione, esoneri dall’accisa, finanziamenti pubblici per nuove infrastrutture sia nel nostro Paese che all’estero, facilitazione per le attività di estrazione di gas e petrolio, ma anche per le aziende energivore e petrolifere. Tra questi finanziamenti rientrano anche i 6,1 miliardi di euro che lo Stato italiano ha destinato tra il 2013 e il 2015, attraverso Cassa Depositi e Prestiti e SACE (società per azioni del gruppo italiano Cassa Depositi e Prestiti), a 21 progetti a fonti fossili, contro i 123 milioni di euro l’anno destinati alle energie pulite. Impressionante pensare che SACE entri addirittura nella Top10 dei maggiori finanziatori del G20. Anche dal punto di vista delle royalties, la produzione di gas in Italia è sicuramente favorevole alle compagnie petrolifere, basti pensare che il 75% delle concessioni in mare per il gas (37 su 49) nel 2016 ha estratto una quantità inferiore alla soglia di 80 milioni di Smc (standard metri cubo); di queste 36 concessioni 29 appartengono ad Eni (di cui una insieme ad Edison), 7 sono di Eni Mediterranea Idrocarburi e 2 sono di Edison. In totale quindi, circa il 21% della produzione di gas a mare non è rientrato nel calcolo del gettito per le royalties, che viene pagata solo da 12 concessioni di coltivazione.
Purtroppo ancora oggi la corsa allo sfruttamento dell’oro nero nei mari italiani continua senza tregua, grazie alle 69 concessioni di coltivazione presenti nelle nostre acque (di cui solo 50 realmente produttive); 29 di queste ricadono nell’alto Adriatico, 15 nel medio e basso Adriatico e 3 nel canale di Sicilia. Per quanto concerne la produzione di greggio nei mari italiani, nel 2016 è stata di oltre 720mila tonnellate, poco meno della quantità estratta nell’anno precedente (circa 750mila tonnellate) e corrispondente al 19,3% della produzione nazionale (mare e terra).
Fermare le estrazioni di idrocarburi e, di conseguenza, uscire definitivamente dalla dipendenza dalle fonti fossili, è un passo fondamentale per arrestare il cambiamento climatico. Tale stop, infatti, permetterebbe di ridurre le emissioni di CO2 di oltre 750 milioni di tonnellate, ovvero il 5,8% al 2020. Recenti analisi mostrano invece come, continuando ad utilizzare le attuali risorse di petrolio e gas negli impianti già in esercizio, il Pianeta si riscalderà ben oltre gli 1,5°C consigliati. Le potenziali emissioni di CO2 provenienti da tutti i combustibili fossili negli impianti e nelle miniere già operanti al mondo ci porterebbero, infatti, ben oltre i 2°C.
Per tutte queste ragioni Legambiente continua a battersi per chiedere all’Italia massima trasparenza e azioni concrete per definire l’agenda ambientalista efficace che preveda, tra i primi interventi da attuare, l’eliminazione entro il 2020 di tutti i sussidi alle fonti fossili. E il nostro Paese ha una grande opportunità davanti a sé. A fine agosto infatti scadrà il tempo per presentare le osservazioni alla Strategia Energetica Nazionale proposta dal Governo. Da questa verranno stabilite le politiche energetiche almeno per i prossimi 20 anni. Peccato, però, che tale documento non presenti nulla di davvero innovativo e concreto per combattere questi fenomeni. Anzi, pare che la SEN dei Ministri Calenda e Galletti punti a rafforzare il ruolo delle fonti fossili e la sua dipendenza italiana da queste, condannando così l’Abruzzo e l’Italia al peso di infrastrutture basate su un modello economico ormai anacronistico che va al di là di una razionale e intelligente strategia energetica di transizione.
“Cambiare il modello energetico del nostro Paese, riducendo – fino ad azzerare, l’attività estrattiva ed il consumo di petrolio, carbone e gas – deve essere una assoluta priorità del nostro Governo – dichiara Katiuscia Eroe, responsabile Energia di Legambiente – Per questo Legambiente ritiene che sia fondamentale uscire dal carbone già al 2025 ed eliminare i sussidi alle fonti fossili, un vero ostacolo all’innovazione energetica di questo Paese e alla realizzazione di un modello energetico in grado di aiutare le famiglie e i cittadini a migliorare la qualità di vita e a contrastare i cambiamenti climatici. Se il Governo spendesse ciò che investe nelle fossili in rinnovabili, efficienza energetica, smart grid, accumuli, sicuramente contribuiremo concretamente alla lotta ai cambiamenti climatici, migliorando lo stato ambientale del nostro Paese, generando innovazione e creano nuovi posti di lavoro”.
Fortunatamente in soccorso dei nostri mari è intervenuta la sentenza della Corte Costituzionale dello scorso 22 luglio che ha annullato il decreto trivelle del 2015, il quale regolava il rilascio dei titoli perché adottato senza intesa con le Regioni. Essa rappresenta la seconda vittoria nel giro di poche settimane da parte degli enti locali dopo un altro verdetto pubblicato nei giorni scorsi con il quale è stato dichiarato illegittimo l’art. 38 dello Sblocca Italia. La Regione Abruzzo ha poi presentato un nuovo ricorso al Capo dello Stato contro il decreto trivelle contestando l’assenza del disciplinare tipo e di un piano d’area strategico, mentre il Comune di Vasto è stato l’unico ad avanzarlo al Tar. L’auspicio di Legambiente è quello che sempre più regioni continuino a manifestare, anche attraverso atti formali, la loro contrarietà a queste attività.
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